mercoledì 25 aprile 2012


25  APRILE  1945
CON  LA LIBERAZIONE VERSO LA PACE  E  LA  DEMOCRAZIA

Siamo qui, oggi, dopo 67 anni da quel giorno festoso, a rinnovare la memoria di avvenimenti, che sono fondanti per la storia della nostra giovane democrazia, che talvolta ci appare ancora un po’ fragile.
Insieme con le celebrazioni del 4 novembre, fine della prima guerra mondiale e completamento dell’unità d’Italia (Trento e Trieste) e quelle del 2 giugno, nascita della Repubblica a seguito del referendum popolare con il voto per la prima volta anche delle donne, il 25 aprile, giorno della Liberazione,  rappresenta la festa di un popolo che ritrovava finalmente la pace, dopo una guerra sanguinosa, la libertà dall’occupazione tedesca, la rinata democrazia dopo il ventennio della dittatura fascista, che negli anni trovò il consenso di molti italiani (non tutti), ma che era stata, bisogna ricordarlo, negazione delle libertà e della vita democratica.
Basta ricordare le leggi fascistissime del 1926, con la soppressione di tutti i partiti, dei sindacati, dei giornali non allineati.

Resistenza, quindi, come nuovo fondamento della nostra comunità nazionale.

Insieme alla festa per una ricorrenza così importante, dobbiamo però anche riflettere sulle ragioni per cui  sentiamo spesso lamentare che in Italia non è così forte il senso di appartenenza alla patria, che appare talvolta debole lo spirito nazionale.
Non giova certo a rafforzarlo l’atteggiamento di chi, purtroppo anche tra i rappresentanti delle Istituzioni a vari livelli, negli scorsi anni ha teso a dare poco risalto alle celebrazioni del 25 aprile, a disconoscerne il valore e il significato, che invece vuole e deve essere festa di tutti, di tutto un popolo.
Noi sappiamo, certo, che la lotta di resistenza dal ’43 al ’45 fu purtroppo per l’Italia in qualche misura anche guerra civile, oltre che lotta per la liberazione dall’occupazione straniera da parte delle formazioni partigiane, insieme con gli eserciti alleati.
Dovremmo guardare un po’ oltre i nostri confini per vedere con quanto entusiasmo e quanta partecipazione di popolo, insieme con le Istituzioni dello Stato, si celebrano le feste nazionali di altri Paesi; penso alla festa del 4 luglio negli Stati Uniti o alla festa del 14 luglio in Francia. 25 aprile: giornata di festa nazionale, dunque, per una riconquistata libertà.

Prima di tutto, però, occorre ricordare e capire cosa fu la Resistenza e la lotta che portò alla Liberazione, importante perché non ci fu solo portata da altri, ma conquistata a prezzo della vita di molti, in forme diverse, da parte di molti italiani.
Pensiamo alle migliaia di famiglie che avevano perduto figli, mariti e padri sui fronie di guerra, i soldati sbandati dopo l’8 settembre, quelli che avevano combattuto in Russia o in Grecia; i giovani, che girando per le strade del proprio paese vedevano solo manifesti di chiamata alle armi e la minaccia, se non si rispondeva, di essere catturati, deportati o giustiziati, (oltre 600.000 soldati furono portati nei campi di lavoro tedeschi per aver rifiutato di aderire ai bandi della Repubblica di Salò); tutti coloro cha da anni subivano la persecuzione, l’assenza di libertà e adesso anche una guerra spaventosa e nella quale gli italiani non erano nemmeno in grado di onorare la patria così come erano stati educati; i 12.000 deportati per ragioni di razza e di appartenenza politica; e anche molti preti nei paesi e nelle campagne (250 deportati e 210 fucilati).

Se proviamo a risentire tutto quel sapore di tragedia e di morte, che a noi più giovani non è toccato, riusciamo a capire il coraggio della scelta di chi si è fatto partigiano.
Il coraggio è una virtù che talvolta viene confusa con il fare azioni spericolate e fuori dalle regole fini a se stesse. Il coraggio in quel momento significava, invece, come spiega la staffetta partigiana Tina Anselmi, schierarsi e decidere da che parte stare, tentare, dopo vent’anni di vita politica irregimentata cui seguì l’ occupazione tedesca, la strada del cambiamento, ricostruirsi come popolo italiano una dignità morale e civile.
Il condannato a morte che a poche ore dalla sua fine scrive “non piangetemi” oppure “muoio per un’idea, e l’idea con me non morirà, ma andrà avanti” in modo incontrovertibile testimonia quest’ansia di un’Italia migliore che animò quei giovani che oggi siamo qui a ricordare. La loro morte in un’età tanto acerba ci commuove e ci spinge a ricordarli con affetto e riconoscenza.
 Essi si offrirono per affermare la vita, la libertà, l’uguaglianza, la giustizia, la democrazia, la pace: tutto quello che in quel momento in Europa e in Italia non c’era e che credevano possibile realizzare a partire dal loro impegno personale.

Si stimano in 250.000 i partigiani organizzati nelle formazioni armate come la Brigata Perlasca delle Fiamme Verdi, le Brigate Garibaldi, quelle di Giustizia e Libertà, quelle autonome.
Ma ci fu anche la resistenza degli operai delle grandi fabbriche, soprattutto nelle grandi città, con gli scioperi del marzo ’43 e ’44; lottavano per la fine della guerra, per i salari da fame, ma anche per la libertà e la democrazia e negli ultimi mesi anche per difendere le fabbriche contro il tentativo di smantellamento da parte dei tedeschi.
Anche da qui trae origine l’articolo di apertura della nostra Costituzione “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”; forse quello meno attuato, quando la disoccupazione raggiunge i livelli attuali.
Anche dalla svalorizzazione del lavoro, per il primato di altre rendite, deriva la crisi sociale e morale; un lavoro che per troppi manca o che non viene riconosciuto per quello che dà alla società; non solo di operai e contadini, ma anche di artigiani e piccoli imprenditori, di chi si occupa della cura delle persone, dell’educazione dei giovani.
Troppo sbilanciato il valore attribuito alla finanza e alle sue rendite perché una comunità cresca in misura equilibrata, fondata sul merito effettivo e su principi di solidarietà.

Eppure, dopo i disastri e le macerie lasciate da lunghi anni di guerra, i partigiani ritornati a valle e le famiglie che avevano atteso finalmente un ritorno alla vita normale, quei nostri padri seppero impegnarsi a fondo, con grandi sacrifici e voglia di riscatto, risalire lentamente la china, portando il nostro Paese ai livelli delle nazioni più avanzate.
Chi aveva fatto la lotta partigiana e chi l’aveva sostenuta aveva del resto sperimentato un impegno senza remore, rischioso,, in prima persona; una scelta difficile ma segno di assunzione di responsabilità.






A questa tensione ideale è necessario ispirarsi ancora oggi per superare la crisi sociale e della democrazia; abbiamo sperimentato i guasti che sono conseguiti dall’affidamento acritico nelle mani di una sola persona, scavalcando il faticoso ma necessario processo di confronto democratico; una società si sviluppa in modo equilibrato se valorizza i corpi intermedi della società, le associazioni, le organizzazioni sindacali dei lavoratori e delle imprese, i partiti democraticamente organizzati, la rete delle Istituzioni locali.
Se si privilegia la decisione rapida, senza mediazioni, si favorisce il distacco e si spingono le persone a cercare la soluzione ai propri problemi con la ricerca della raccomandazione o della protezione del potente di turno.
Non si costruisce una cultura dell’esercizio dei propri diritti e analogamente dei propri doveri, in un quadro di certezze e di regole; non si promuove il senso di appartenenza e quindi del dovere e della responsabilità verso la propria comunità. 

Questi principi erano ben presenti agli uomini che guidarono la lotta di resistenza perché poi li abbiamo ritrovati declinati nella prima parte della nostra Costituzione che di quella lotta è stato il frutto più maturo.
Il primo valore fu certo
·           la conquista della libertà, anzi delle libertà;
·           e insieme l’estensione dei diritti civili e politici a tutti, con la ricerca di una maggiore giustizia sociale;
·           la condanna della discriminazione razziale (pensiamo alle sciagurate leggi del 1938 contro gli ebrei)
·           il diritto di voto finalmente universale perché esteso per la prima volta alle donne insieme con un primo avvio verso una parità non ancora pienamente raggiunta (pensate che allora una donna non poteva ricoprire alcune funzioni pubbliche: segretario comunale, insegnante di filosofia nei Licei; in Magistratura le donne entreranno solo nel 1963).

Se questi sono i fondamenti della nostra Italia repubblicana che dalla lotta di liberazione ha tratto la sua nascita e il suo patrimonio di principi e ideali, appare davvero incomprensibile l’azione non mai totalmente sopita di quel revisionismo che tende a sminuire il valore della Resistenza.    

Celebrare la Resistenza e la lotta di liberazione ci ricorda che essa si collocava a fianco di analoghe lotte di resistenza in tanti paesi dell’Europa contro i regimi totalitari nazifascisti.
Per questo ci appare troppo lento il processo di costruzione dell’Europa politica, anche dopo l’allargamento conseguente alla caduta del muro e alla fine della divisione in blocchi.
Anzi, negli ultimi anni abbiamo assistito al rigurgito di nazionalismi e localismi, che sono l’esatto contrario di un sano federalismo europeo, di cui oggi avvertiamo la necessità per poter contrastare efficacemente le distorsioni di un modello di sviluppo sbagliato e pericoloso, con il prevalere di un potere finanziario anonimo e transnazionale, di conflitti per il controllo delle risorse del pianeta, a partire dall’acqua e dalle fonti energetiche.





Una crisi economica che però si presenta anche con i caratteri di una crisi epocale, sul piano etico-morale, con i fenomeni dilaganti di corruzione, ma anche di grande evasione fiscale, che accentua le disuguaglianze sociali, con forte caduta di ideali e distacco dalle Istituzioni; quindi crisi di partecipazione democratica, che è uno dei grandi valori riconquistati proprio grazie alla lotta di resistenza.
Ecco perché non si può guardare con distacco a questa ricorrenza, che qualcuno vorrebbe liquidare come richiamo retorico ad un evento concluso, perché i diretti protagonisti tendono ad assottigliarsi di anno in anno.
Oggi è venuto meno il contrasto di un tempo tra chi pensava che la Resistenza fosse stata tradita, incompiuta perché non realizzata anche sul piano dell’eguaglianza sociale e tra chi manifestava ostilità alla sua celebrazione, perché considerata di parte, lotta dei comunisti, fonte di divisione tra chi si era trovato su sponde opposte.
Oggi invece il rischio è l’indifferenza, la rimozione tra i più anziani o la non conoscenza tra i più giovani. Per questo è necessario riprendere le ragioni e le tensioni ideali di allora, anche perché il dilagare di fenomeni di malcostume cresce forse perché troppi scelgono di non occuparsene, come se il governo della cosa pubblica, a livello locale e nazionale, per la ricerca del bene comune, non fosse compito di tutti proprio a partire dalle comunità locali.
E’ necessario abbandonare la tendenza alla delega, al rinchiudersi in una dimensione personale, che diventa egoistica, al curarsi solo degli affari propri come ci ricordava un grande vecchio, Norberto Bobbio:
“Se in una società sempre più corrotta e volgare come la nostra, abbiamo ancora qualche ragione di guardare al passato e di trarne un conforto, questo passato è la Resistenza viva, non quella imbalsamata, la resistenza incompiuta e interrotta, o rinviata o spezzata, la resistenza come impeto, come conato, destinata, come tutti i conati, a indicare una meta ideale più che non a prescrivere un risultato”.

Queste parole sono di estrema attualità se guardiamo ai più recenti fatti di cronaca e al degrado della cattiva politica, non della politica in sé.
Una cattiva politica che trova sponda nell’indifferenza di chi non si rende conto di offendere quanti hanno pagato un caro prezzo, molti anche con il sacrificio della propria vita, per portare il nostro Paese, prima all’unità nazionale, con le lotte risorgimentali, e poi alla riconquistata indipendenza e libertà con la lotta di resistenza.
Penso a quanti dileggiano il tricolore e farneticano di fantomatiche nazioni padane che sono fuori dalla storia e tradiscono alla radice le legittime aspirazioni ad un più grande riconoscimento delle autonomie locali, non contro qualcun altro ma in spirito  di comune appartenenza.
La ricostruzione di una nazione dopo la crisi del ventennio e una guerra sanguinosa si ispirava ad una tensione ideale fortissima, che rivendicava la volontà di riappropriarsi del proprio diritto a concorrere al governo della cosa pubblica attraverso la partecipazione democratica nei partiti e nelle diverse associazioni, per approdare alle Istituzioni della Repubblica, a partire da quelle locali.
Per questo, a conclusione, vorrei richiamare la testimonianza diretta di due protagonisti di quella grande vicenda che fu la resistenza e la lotta di liberazione.
Parlo di Tina Anselmi che in una recente testimonianza ha sintetizzato il senso dell’esperienza partigiana con chiare parole: “La scoperta più importante fatta in quei mesi di lotta durante la guerra è stata l’importanza della partecipazione: per cambiare il mondo bisognava esserci.”
La partecipazione, in seguito, per Tina Anselmi ha voluto dire l’impegno generoso nel sindacato e nel parlamento, fino a diventare la prima donna ministro oltre ad assumere incarichi importanti in vari ambiti.
La festa del 25 aprile racchiude questi semplici ed essenziali significati ancora estremamente attuali: per cambiare il mondo bisogna esserci, perchè un paese sia migliore serve il contributo di tutti, perchè un paese cammini sicuro occorre il confronto tra idee diverse esercitando la nobile pratica della democrazia. 

Mi piace qui ricordare la testimonianza di un altro protagonista, recentemente scomparso; parlo di Giorgio Bocca che così scrive nel suo libro “Storia dell’Italia partigiana…”il valore primario della Resistenza fu un valore culturale: non quello dei suoi modesti prodotti immediati, ma quello di una partecipazione culturale inedita nella storia della nazione, sostitutiva di rivoluzioni borghesi o socialiste mai compiute, di lotte religiose mai combattute”.
Quella partecipazione ci fu “…perché allora ci fu la libertà di pensare come si voleva. Per la prima volta  abbiamo avuto la possibilità di pensare al destino del Paese. La caduta del fascismo fu soprattutto una scelta di libertà…”
E alla domanda: perché il nostro Paese fa ancora così fatica a scegliere la democrazia?
Giorgio Bocca rispondeva: “Perché la democrazia è una forma fi partecipazione politica molto faticosa: bisogna discutere, formarsi un’opinione, leggere. Non ci si può affidare alla retorica o ai falsi patriottismi. E tutto questo agli Italiani (certo non a tutti) dà noia, risulta stancante: preferiscono ci sia qualcuno che decida per loro…”
Parole amare da parte di chi aveva rischiato la pelle per la riconquista della democrazia, ma che tuttavia ci indicano una strada.
La stessa peraltro indicata da un autore di canzonette, parlo di Giorgio Gaber, quando ci ricorda che  “libertà è partecipazione”.

E’ questa la luce che illumina il 25 aprile e lo rende una festa importante e bella. Per tutti, la festa della democrazia che si è cominciato a costruire dopo la guerra, una volta conquistata la liberazione.

Vobarno, 25 aprile 2012

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